“La fotografia dev’essere silenziosa (vi sono foto reboanti, che io non amo): non è una questione di «discrezione», ma di musica. La soggettività assoluta si raggiunge solo in uno stato, in uno sforzo di silenzio (chiudere gli occhi, è far parlare l’immagine nel silenzio). La foto mi colpisce se io la tolgo dal suo solito bla-bla: «Tecnica», «Realtà», «Reportage», «Arte», ecc.: non dire niente, chiudere gli occhi, lasciare che il particolare risalga da solo alla coscienza affettiva.”
La camera chiara. Nota sulla fotografia, di Roland Barthes
Quando ero piccola rubavo per gioco la macchina fotografica di papà e me ne andavo in giro per casa a fotografare i dettagli a mio parere interessanti; mi divertiva fissare le espressioni di sorpresa di mamma, di papà e di mia sorella.
Ho scoperto in questo modo che facendo fotografie, con le mani potevo fermare il tempo: una magia! Quando mi hanno regalato la mia prima macchina fotografica analogica Olympus ero al settimo cielo!
Sono cresciuta a pane e fotografia, letteralmente. Guardare gli album di famiglia è sempre stato uno dei miei passatempi preferiti, ecco perché probabilmente ho ereditato il fascino dell’analogico.
Lo ammetto, sono una nostalgica romantica, mi piacciono le fotografie analogiche, perché mi piace la pastosità e la grana racchiusa in quei ricordi, (e per quell’aspetto che tanto mi piace dell’avere cura di ricordare).
Mamma mi ripeteva che non dovevo mai smettere di credere nelle mie potenzialità, quelle che spesso non vedevo ma che lei raccoglieva come le conchiglie sulla spiaggia per mostrarmele.
Papà mi portava in giro in auto a guardare i tramonti, insegnandomi a racchiudere i ricordi in uno sguardo e in uno scatto.
Non ho mai smesso di scattare fotografie analogiche (e anche ritratti) con la mia cara Olympus.